Arethusa è uno studio clinico di fase II sul tumore del colon-retto, condotto con un approccio diagnostico-terapeutico inedito da Università degli Studi di Torino, IFOM, Ospedale Niguarda e Università degli Studi di Milano. Lo studio è stato possibile soprattutto grazie a Fondazione AIRC che ha sostenuto il programma speciale “5 per 1000” coordinato da Alberto Bardelli. Nello studio i ricercatori hanno individuato una strategia terapeutica che consente di trattare con l’immunoterapia i tumori metastatici, con la prospettiva di estendere le aspettative di vita dei pazienti e bloccare la progressione tumorale. Lo studio coordinato dal professor Alberto Bardelli di IFOM e ateneo torinese, costituisce un concreto esempio di sinergia tra ricerca e clinica grazie a un metodo che ha combinato biopsia liquida e biopsia tissutale. Per lo studio sono stati selezionati 80 pazienti che soddisfacevano i requisiti di uno screening molecolare effettuato su 500 tumori. Quindi i ricercatori hanno avviato una prima sperimentazione terapeutica su 47 pazienti reclutati: i primi incoraggianti risultati traslazionali, basati su 21 di questi, sono stati pubblicati ora sull’autorevole rivista scientifica Cancer Discovery.
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Secondo le statistiche internazionali GLOBOSCAN 2020, stilate dall’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC), il 10% delle nuove diagnosi di tumore sono riferite al colon-retto, e nel 2020, in Europa, sono stati identificati oltre 500.000 nuovi casi di questa patologia. Il tumore al colon-retto costituisce la causa del 9% di morti oncologiche, mentre il tasso di sopravvivenza a 5 anni si attesta a circa il 15% dei pazienti che vanno incontro a metastasi.
Per molte persone con diagnosi di tumore con metastasi, l’immunoterapia rappresenta attualmente la strategia terapeutica più efficace per prolungare le aspettative di vita. Tuttavia nel caso di tumori metastatici del colon-retto solo pochi pazienti possono oggi avvantaggiarsene, poiché oltre il 90% di questi tumori sono resistenti all’immunoterapia.
Un discrimine sensibile per riuscire a estendere le aspettative di vita, che in genere in questi pazienti sono di pochi mesi, è dettato dalla possibilità per loro di accedere a opzioni terapeutiche come l’immunoterapia. È questa la sfida affrontata dallo studio di fase II Arethusa, i cui risultati appena pubblicati sono estremamente promettenti per i pazienti oncologici. “I farmaci immunoterapici – illustra il coordinatore dello studio, Alberto Bardelli, direttore scientifico di IFOM e professore ordinario all’Università degli Studi di Torino – amplificano infatti la risposta immunitaria scatenata dalle cellule T che infiltrano i tumori, e che sono così stimolati a riconoscere e sopprimere le cellule tumorali. Tuttavia non tutti i tumori sono uguali: alcuni, noti come tumori immunologicalmente ‘caldi’, mostrano segni di infiammazione e quindi un elevato numero di cellule T infiltranti, ragione per cui risultano più sensibili ai farmaci immunoterapici, mentre altri tumori, detti “freddi”, sono quasi totalmente impermeabili alle cellule T, risultando insensibili all’immunoterapia”.
A livello biologico la distinzione tra tumore freddo e tumore caldo dipende dal fatto che la cellula tumorale presenti o meno difficoltà a riparare il DNA. “In una cellula tumorale così come nelle cellule sane – spiega il primo autore dello studio, dottor Giovanni Crisafulli dell’Università degli Studi di Torino – avvengono continuamente lesioni al DNA. Se una cellula tumorale non è in grado di riparare il proprio DNA accumula tali mutazioni, segnalandosi involontariamente all’immunoterapia come bersaglio terapeutico. Se invece la cellula tumorale riesce a riparare gli errori del DNA, presenta poche mutazioni e diventa pertanto difficilmente intercettabile dal sistema immunitario, riuscendo a eludere l’immunoterapia e garantendosi così la sopravvivenza a discapito dei pazienti. Purtroppo la maggioranza dei tumori al colon-retto, si stima al 95 %, è caratterizzata da questo tipo di cellule. Pertanto il cancro al colon-retto più comune è anche quello per cui i pazienti possono trarre beneficio da minori opzioni terapeutiche”.
A meno che si individui un modo per intercettare i tumori freddi e trasformarli in tumori caldi. È questo l’obiettivo che si sono posti i ricercatori quando hanno progettato ARETHUSA. “Lo studio – spiega la promotrice dello studio, dottoressa Silvia Marsoni, a capo dell’Unità di Oncologia di Precisione di IFOM – è estremamente complesso e richiede una prima fase di screening molecolare perché solo pazienti con certe caratteristiche molecolari del tumore possono essere trattati con il farmaco temozolomide, al centro della terapia. Una fase di screening molecolare molto intensa, che ha coinvolto anche il laboratorio della prof.ssa Federica Di Nicolantonio presso l’IRCC di Candiolo, ha analizzato oltre 500 tumori– prosegue Marsoni – da cui sono stati selezionati gli 80 pazienti con i requisiti per poter essere arruolati nella fase sperimentale. Di questi, 47 hanno iniziato il trattamento e 21 sono quelli sui quali si è concentrato lo studio”.
Da dove è nata l’idea? “Da risultati di laboratorio ottenuti nel 2017 – Racconta Alberto Bardelli – in cui abbiamo individuato il temozolomide, farmaco già in uso clinico per la cura di tumori celebrali molto aggressivi come i glioblastomi, come via terapeutica per incrementare il numero di mutazioni nei tumori al colon-retto immunologicamente freddi, in modo da renderli caldi e quindi potenzialmente sensibili a terapie immunologiche che stimolano la risposta immunitaria”. “Ora grazie ad Arethusa – prosegue il Responsabile Clinico del progetto, professor Salvatore Siena, dell’Ospedale Niguarda di Milano e dell’Università degli Studi di Milano – queste ricerche sono state applicate a livello clinico su 47 pazienti affetti da tumore al colon-retto metastatico in cui le normali terapie antitumorali hanno già fallito e per i quali non vi sono altre opzioni terapeutiche”. A livello clinico lo studio ha coinvolto, sempre con il coordinamento del professor Siena, altri tre istituti clinici milanesi: Istituto Nazionale dei Tumori, Istituto Europeo di Oncologia e Istituto Clinico Humanitas.
I risultati sono poi tornati in laboratorio: “Grazie ai risultati preliminari di laboratorio sui primi 21 pazienti arruolati – spiega Giovanni Crisafulli – abbiamo scoperto che esistono geni che, se inattivati possono, più di altri, guidare l’accumulo di mutazioni. Abbiamo anche osservato che tale accumulo di mutazioni non avviene in maniera casuale nel genoma, ma segue delle regole ben precise, riscontrabili nelle cosiddette firme genetiche”.
Dopo la somministrazione del temozolomide, il gruppo di ricercatori che gestisce Arethusa ha monitorato tramite biopsia liquida e tissutale il genoma del tumore e del sangue dei pazienti. Lo scopo era verificare l’efficacia e l’effetto molecolare del farmaco. “Questo monitoraggio – prosegue Crisafulli – ci ha consentito di individuare come evolvono marcatori genetici che nell’insieme costituiscono delle ”firme mutazionali”. Abbiamo così potuto capire quanto il farmaco temozolomide fosse stato efficace nel provocare un incremento di mutazioni”. A questo punto i pazienti in cui si era avuto prova di questo incremento di mutazioni, e che, quindi, avevano maggiori probabilità di risposta, sono stati trattati secondo protocollo clinico con farmaci immunoterapici.
Lo studio ha fatto leva su un approccio diagnostico-terapeutico inedito che combina un particolare classe di chemioterapici e un sistema di monitoraggio genetico efficace basato sull’abbinamento tra biopsia tissutale e biopsia liquida. “Il metodo che combina biopsia tissutale e biopsia liquida – spiega Bardelli – è ancora poco esplorato a livello traslazionale ed è stato possibile grazie all’intensa sinergia tra clinici e ricercatori. La biopsia liquida è più efficace per indagare l’eterogeneità del tumore, mentre quella tissutale può permettere una analisi molecolare puntuale della lesione, divenendo molto importante nei casi in cui la biopsia liquida può fallire, come ad esempio nei pazienti con prevalenza di metastasi al polmone o peritoneo. Grazie alla complementarietà tra i due metodi siamo in grado di effettuare una valutazione particolarmente accurata del numero di mutazioni”.
I risultati ottenuti in laboratorio hanno dunque indirizzato efficacemente le cure al letto dei pazienti: “dopo una sperimentazione di più di tre anni e mezzo – afferma Siena – possiamo dire con soddisfazione che, grazie a questa strategia, in alcuni casi siamo riusciti ad ottenere anch1e un blocco della progressione del tumore, fino ad un’estensione di 24 mesi con condizioni di salute generali accettabili dei pazienti. Di fatto siamo riusciti a rendere onore al nome del progetto, che si ispira al mito greco di Aretusa come figura della trasformazione dell’impossibile in possibile, proprio come nella trasformazione di casi di tumore al colon-retto metastatico che si trasformano, da resistenti a sensibili all’immunoterapia con la terapia con temozolomide”.
“Oltre ad aver dato risultati concreti ed estremamente promettenti per i pazienti oncologici, l’unicità di Arethusa – riflette Marsoni – è legata alla forte interdisciplinarità degli specialisti che hanno collaborato in stretta sinergia: clinici, biologi, bioinformatici e data scientists”.
Una perfetta simbiosi fra ricerca e clinica con benefici diretti per i pazienti. “Arethusa – prosegue Bardelli – grazie a un lavoro di squadra esteso, può donare una possibilità di terapia ai pazienti per i quali non ci sono opzioni terapeutiche, e questo ci rende felici. Tutto questo non sarebbe stato possibile senza il generoso sostegno di Fondazione AIRC, che ha creduto sin dal principio nelle potenzialità di questo studio, assegnandoci un grant per uno dei programmi speciali sulle metastasi sostenuto dai fondi ‘5 per mille’. Anche i contributi di Fondazione Oncologia Niguarda Onlus e di MSD sono stati rilevanti”.
Conclusa questa prima fase se ne apre una seconda: “Lo studio prevede un ulteriore arruolamento, quindi riuscirà a darci ulteriori risposte. In questa prima parte abbiamo analizzato il tumore e il suo incremento di mutazioni, il prossimo passo – anticipano Bardelli e Siena – ci permetterà di focalizzarci sullo studio dell’interazione tra sistema immunitario e tumore e su come e perché il nostro corpo riesca a rispondere selettivamente soltanto contro determinati tipi di tumori e non altri. Capire questi concetti ci potrà aiutare significativamente potenziare la capacità del sistema immunitario di riconoscere più efficacemente i tumori”.
Fonte news: Airc